Dal blog “Fò di Pè” riprendiamo il post su LaMattaCorsa del 4 ottobre
Chi scrive è la Cenerentola che ha perso entrambe le scarpe nel fango di cui vi avevamo parlato qui
Non potevo stare ferma e aspettare la mia Spartan Beast in Francia fino a metà ottobre sapendo che a Modena c’era ‘la Matta Corsa’ il 4 ottobre. E così un po’ perché ci si andava con la squadra e un po’ perché ‘mi serve come allenamento per la Francia’ mi sono iscritta.
Era già qualche giorno che non ero molto in forma ma sabato dopo un giorno di intero riposo ero abbastanza carica.
Nonostante la pioggia torrenziale dei giorni precedenti arrivo a Campogalliano (Mo) con un timido sole che fa capolino tra le umide nuvole.
La gara sarebbe partita in ritardo, la pioggia aveva compromesso il percorso e necessitava verifiche e messe in sicurezza.
Il fiume da guadare (il Secchia) è diventato molto grosso per i temporali dei giorni precedenti, l’acqua è diventata alta ed è quindi da superare a nuoto e non più a piedi ma la corrente è forte.
Dopo oltre un ora di attesa ci allineano alla partenza. E’ mezzogiorno passato.
La gara è 12km con una trentina di ostacoli naturali e non.
Siamo parecchi, il sole scalda, mi sono iscritta alla competitiva.
Si parte!
I primi tengono un ritmo insostenibile andando sotto i 3 al km, parto troppo forte, rallento, lascio andare.
Dopo un km di corsa la strada diventa palciosa, faccio fatica, ho le gambe non ancora a regime e ho un paio di chili in più di fango attaccato ai tacchetti delle scarpe, man mano la strada diventa più secca e corro pesante per cercare di scrollare il fango dalla suola. Iniziano gli ostacoli, un bel muro verticale di oltre 3 metri da scendere in cordata, mi attacco alla corda, mi faccio scivolare giù sui materassi, poi c’è da risalire. Non so fare la corda, predo la penalità.
Da li si susseguono dei copertoni da tirare pesantissimi in cui non c’è distinzione di peso tra i sessi, dei muri, un monkey bar che con mia sorpresa faccio senza fatica, ma al secondo tentativo, togliendo i guanti a mani nude, poi pezzi ripidi da fare in corda.
Sono fuori forma massima, ho le gambe stanche che non vanno per niente, tengo la corsa ma non ne vogliono sapere di aumentare falcata e velocità.
La prendo con filosofia, non è la mia giornata, sorridiamo alla fatica e quando arrivo arrivo, l’importante è non mollare mai la corsa pur lenta che sia….
Mi trovo davanti un volontario che mi devia in una strettoia tra le piante che mi fa lasciare la strada sterrata, c’è uno specchio d’acqua artificiale alto pochi cm. Si scivola un po. Arrivo in fondo e ci sono delle ‘scale’ a bacino dove si deve risalire con una corrente fortissima. Entro nel primo bacino. L’ acqua mi arriva ai fianchi ma è come un anguilla gelida che scende nervosa e mi sposta… risalgo questi bacini di cemento, come cassette del pane, stretti un metro e mezzo circa che fanno scorrere questo fiume di acqua potente.
Saltare da un bacino all’altro è la parte più complessa perchè c’è un muretto che non vedi sotto la potenza dell’acqua che poi sprofonda nel bacino più alto. E’ come lottare con un grande serpente con mille code che ti attanagliano le gambe e i fianchi. Più sali e più è forte, mi aiuto con le braccia. Esco e riparto a correre.
Almeno ho le scarpe pulite ora!
Sterrati pieni di fango, canneti, pezzi interminabili di corsa senza ostacoli.
Arrivo al famoso fiume. Altri ragazzi sono in coda.
Il fiume è sotto un 5 metri, c’è da scendere con le corde in verticale puntandosi con i piedi sul terreno dell’argine fatto di terra piante e fango.
Sotto un volontario con la muta in acqua tra 2 corde con dei galleggianti distanti un 4 metri tra loro che delimitano il pezzo da guadare.
Altri volontari aiutano a uscire dall’acqua sulla sponda opposta
Un ragazzo si butta e cerca di nuotare ma la corrente è forte. Non si tocca. Mi preoccupa più il pezzo in cordata che è bello lungo e verticale. Tocca a me, scendo senza problemi.
Mi butto in acqua, la corrente mi tira, l’acqua è fredda e forte.A bracciate sul cavo arrivo dal lato opposto, ho percorso come la lunghezza di una piccola piscina, l’uscita è impervia e la corrente ti rende difficile puntare i piedi, i volontari ti tendono una mano e via, altra corda per superare l’argine e salire sulla strada sterrata e si ricomincia a correre.
Si susseguono reti da fare in passo di leopardo, altri specchi d’acqua e corde, tanti pezzi ripidi da salire e scendere aiutandosi con delle grosse corde che mi occupano tutta la mano quando le impugno.
Corde piene di fango, di nodi per bloccarsi tra le mani, intrise di tutto il sudore e della fatica di quelli che sono passati prima di me.
Intorno all’ottavo km mi trovo dietro un mio compagno di squadra che si annuncia con una sonora pacca sulle mie chiappe.
C’è una strettoia di acqua e fango da fare a gattoni, sorrido al fotografo mentre le mie mani sono immerse in una broda densa di fango e procedo superando tronchi messi in mezzo ad ostacolare il passaggio.
Un altro pezzo da guadare, anche qui non di tocca ma ne esco pulita dal fango. Corro.
Ci fanno ancora lasciare la strada sterrata, supero ancora delle piante e quello che vedo non saprei come descriverlo, è una scena che sembra tratta da un dipinto sull’era preistorica. Credo sia un letto di un fiume che oramai è prosciugato da anni, la terra è spaccata in crosta come un biscotto troppo cotto ma le piogge degli ultimi giorni hanno ridato vita a quello che rimane del fondo. Ricorda muschio limo e argilla, non si attacca come il fango, ma sprofonda. E’ come quando fai la pasta della pizza e arrivi ad ottenere quella consistenza perfetta lavorandola con le mani, non si incolla, non sporca, ma inghiotte tutto come un buco nero!
‘Leggera e veloce’ penso.
Ma scivolo e la terra mi inghiotte una gamba fino al tibiale.
Sprofondo.
Non mi sporco la gamba, la terra si apre come gomma ma crea un effetto ventosa potentissimo sotto la mia scarpa. Riesco a fatica a tirare fuori la gamba ma quello che ne esce è il mio piede con il calzino e senza la scarpa che recupero tirando fortissimo con le mani.
Due ragazzi mi aiutano a rimettere la scarpa ma è legata stretta (anche se non troppo per via del chip di carta plastificata) e è piena di fango che la avvolge esternamente come la bombatura di un gommone.
Facendo leva per infilare la scarpa in bilico su un piede come un fenicottero sprofondo con l’altra gamba e appoggio anche il piede con la scarpa che si era appena infilata giusta giusta come se non fosse mai successo nulla.
Le paludi della tristezza della storia infinita, ecco cosa sono, ecco dove le avevo viste! Io però sto ridendo perchè la situazione è tragicomica. Mi sento bloccata come se il mio corpo stesse diventando man mano di pietra. Sono attaccata a ventosa con i piedi e con le gambe immerse fino al tibiale.
Arriva un volontario di corsa, lui sta nella parte al di la della linea di delimitazione del percorso dove la palude non è così umida e non si sprofonda.
Mi tira, mi tira così forte che emette un verso da sollevamento del bilanciere finale olimpica. Io faccio leva, finalmente i piedi si sganciano dalla morsa e lui dal contraccolpo cade indietro come un armadillo spaventato che si appresta a fare la palla.
Non si è fatto male, la palude anche da quella parte è soffice. Ridiamo, lo ringrazio.
Mi guardo i piedi: niente scarpe…solo calzini.
Con i calzini non sprofondo così tanto però!
Mi abbasso, recupero tirando con forza le mie scarpe dai buchi che si erano creati inghiottendomi le gambe e attraverso tutta la lunga palude correndo in calzini.
‘le metto alla fine di questa palude le scarpe’
A fine palude mi rendo conto che il fango colloso non mi permette ne di infilarle ne di slacciare le stringhe se non con 10 minuti di minuziosa pazienza. Ho già perso troppo tempo, non c’è acqua nei paraggi se non tornando indietro dove la palude fa una piccola pozza e no, rischio di essere inghiottita di nuovo.
Mi guardo i piedi, ho un paio di calzettoni da orienteering fino al ginocchio, me li ha regalati Luciano, il signore con cui collaboro disegnando sportwear, sono abbastanza spessi da difendere le
gambe dai rovi. Non ho altra scelta, scarpe pesanti in mano e riparto a correre.
Sono al 9k.
Quello che vedranno i miei piedi negli ultimi km sono sterrati, un canneto, della ghiaia, dei sassi, dell’erba morbida, una montagna di sabbia, altri pezzi a nuoto che non sono sufficienti per togliere quel fango colloso dalle mie scarpe in modo da poterle rimettere.
Molti ostacoli li affronto lanciando le scarpe al di la e riprendendole poi, fistoni dolorosi che si impiantano nella carne tenera, ragazzi che mi incitano a non mollare e altri stupiti di vedermi continuare in calzini. Salto un paio di ostacoli in cui dovevo arrampicarmi sulle reti perchè i piedi fanno troppo male e mi lasciano andare.
Finalmente si apre l’ orizzonte e vedo il traguardo.
Una montagna di balle di fieno e i miei compagni di squadra ancora con il fango addosso che mi aspettano impazienti.
Mi vedono arrivare con le scarpe in mano, mi incitano a lanciarle al di la del fieno. Corro gli ultimi metri e suono la campana della fine con la scarpa.
Medaglia al collo.
Arrivano con la telecamera, intervista veloce, doccia, ci si raduna e birra…santa e meritata birra!
Ieri scopro che sul sito mudrun italia c’è la recensione della gara con i nomi dei vincitori e un pezzo che dice così:
‘Una partecipante era talmente infangata che il piede è risalito dal fango senza scarpa, nel tentativo di recuperarla ha perso anche l’altra. Con l’aiuto di altri mudders le ha recuperate ma a quel punto non riusciva più a infilarle e si è fatta gli ultimi tre chilometri scalza e con le scarpe in mano. Stoica!’
Nel pacco gara c’era una bottiglia di lambrusco.
Enjoy!