Erik Capucci ci racconta la sua Hang-On Run, la survivalrun olandese dalla partecipazione internazionale nel Parco Nazionale Utrechtse Heuvelrug.
di Erik Capucci
Hang on Run è “la gara”, come l’ha definita qualcuno, e non posso far altro che essere d’accordo. Ci siamo, mancano meno di 24 ore. Pronti o no, insieme ai compagni di viaggio Dario Galli e Marco Bertolasi, 13 km e 60 ostacoli aspettano di metterci al tappeto!
La gara è in due giornate. Sabato a darsi battaglia sul campo sono i partecipanti in team, bambini (anche molto piccoli), ragazzini e coppie. Le distanze da percorrere sono diverse per le varie categorie ma gli ostacoli sono gli stessi. Varia ovviamente il numero, ma che sia una tirolese, un muro o una serie di corde nella water zone (l’ultima parte del percorso), dove con una temperatura di 3° ti devi immergere nel laghetto, non ci sono distinzioni.
Quello che subito colpisce è vedere quanti bambini e con quanta determinazione affrontano l’ostacolo che dovrai affrontare anche tu. Alcuni ci riescono subito, altri sono a terra in lacrime perché dopo vari tentativi, vuoi per la stanchezza, per il freddo alle mani o la difficoltà, non lo hanno ancora superato. Nessuno vuole perdere il braccialetto. Perché qui ne hai uno solo (personalmente ho un conto aperto con Bestial Race 2016), quindi ogni ostacolo superato è una spunta sulla lista, un passo in più verso il traguardo, anche se le difficoltà non finiscono fino al suono della campanella.
Non puoi fare a meno di tifare per quei piccoli atleti e già immagini quanto saranno forti da grandi. Provi un po’ di invidia per il semplice fatto che possono praticare questo sport già da piccoli e i loro genitori lo conoscono e praticano da molto più tempo di noi. Dopo aver seguito nella prima giornata una parte di gara, la voglia che arrivi già l’indomani aumenta, vorresti aver già corso. Ti sei già caricato solo a vedere gli altri.
Il giorno della gara
Alle ore 6 suona la sveglia. Colazione abbondante per ricaricarsi e prepararsi alla gara! Si vanno a ritirare la maglia e la famosa band. Ci sono già alcuni atleti in fila, capisci la loro provenienza dalle maglie (tedeschi, polacchi, cechi, inglesi). Tra loro anche atleti che hanno partecipato agli ultimi Mondiali OCR.
Ti chiedono se è la prima volta che partecipi, perché oggi non è una classica OCR ma una survivalrun, dove sono le braccia a fare la differenza tra salvare o perdere il braccialetto, sentire gli avambracci duri come il cemento e le mani che non tengono più la presa. Sono quelle sensazioni che speri di non avere o, al massimo, speri accada verso la fine della gara.
Manca poco. Il tempo di fare riscaldamento, qualche foto di rito e si entra nella zona di partenza divisi in batterie di 20/30 atleti, carichi a mille, concentrati e pronti per affrontare al meglio il percorso. Penso a risparmiare le forze, usare quel poco di tecnica per arrivare alla fine visto che la mia preparazione non è abbastanza, e suonare la campanella con il braccialetto al polso! Le sfide sono un’ottima carica.
Partiti! Decido di gestire la corsa e mi aggrego a un gruppo di belgi. Il percorso entra ed esce dal bosco attraversando i campi. Il terreno sabbioso e la prima parte nella duna appesantiscono un po’ le gambe anche senza tirare, ma il bello deve ancora arrivare. Arriviamo nella zona dove si susseguono, uno dopo l’altro, una serie di ostacoli, come muri, corde, multirig, pali, tavole irlandesi, altre corde, muri, e reti disseminati per centinaia di metri. Giunti alla fine le braccia sono già a cottura media e non siamo nemmeno a metà.
Si torna nel bosco dove troviamo altri ostacoli. Uno in particolare, con il trasporto di uno pneumatico, mi fa perdere tempo e forze. Altri trasporti e prove particolari mettono a dura prova le braccia. Si arriva quindi a un altro blocco di ostacoli raccolti in alcune centinaia di metri, come fly monkeys, weaver, tirolesi. Diversi multirig con prese di ogni tipo, con corde, muri e altro, mi aspettano lungo il tracciato. Ci si avvicina alla parte finale (e anche verso la mia, forse).
La water zone è a 1 km dall’arrivo. Quando sai di essere alla fine meglio non abbassare la guardia. Ho ripreso nel frattempo i ragazzi con cui ero partito. Il tiro con l’arco è una delle prove che ovviamente sbaglio, perché la mira è come l’equilibrio (da rivedere). Nel laghetto c’è gente a mollo nell’affrontare alcuni ostacoli, gente che vola in acqua perché manca o lascia una presa. Proprio un bello spettacolo viste la temperatura di 3° e le mani che iniziano a patire il freddo. L’energia delle braccia è in rosso e la paura di vedere galleggiare la band nell’acqua gelida mi attraversa e si parcheggia nei miei pensieri.
Arrivo alla tirolese sull’acqua e la eseguo imitando quello accanto a me. Nello stesso istante sento il giudice che gli dice di ripeterlo. Capisco a quel punto la disattenzione pagata cara. Non ho ascoltato bene il giudice in partenza, perdo molto tempo per recuperare e lo ritento. Il pensiero di dover perdere il braccialetto quando manca così poco mi fa arrabbiare ma le parole di un amico “non tornare senza braccialetto” prendono il posto del pensiero negativo. I ragazzi con cui ho condiviso parte della corsa l’hanno perso. I giudici ogni volta ti incitano e ti urlano “you can do it!!”. Penso di averli salutati e ringraziati quasi tutti, non è facile il loro ruolo al freddo per tutto quel tempo. Avevo freddo io che correvo!
Seconda disattenzione. Qualcuno fa la tirolese da sopra. Recupero, perdo altro tempo e inizio pure ad avere parecchio freddo e la sensibilità cala. Riparto e buona la terza! Altra serie di pali, corde, reti, un pipe, uno stairway to heaven, urban sky, altre corde e poi finalmente una corsa per giungere all’arrivo e superare anche l’ultimo ostacolo, un multirig di corde con sotto una bella vasca di acqua a temperatura ambiente.